martedì, ottobre 31, 2006

TFR o fondi pensione?

Da quando la riforma previdenziale varata nel 1995 dall'allora governo Dini ha introdotto la possibilità - per tutti i lavoratori - di aderire ai fondi pensione attraverso il versamento di una quota del proprio reddito (e del TFR per i dipendenti), si è iniziato a parlare della convenienza o meno di tale adesione. Adesso che, con la nuova riforma, il lavoratore dovrà necessariamente decidere esplicitamente se non vuole aderire ai fondi (mantenendo così il proprio TFR), diventa ancora più importante capire quale sia la scelta più corretta.

Per prima cosa, non lasciamoci prendere dagli allarmismi. In molti hanno visto nell'adesione ai fondi una sorta di "scippo" di un istituto, il TFR, che è sempre stato visto (e continua a rimanere) come un diritto del lavoratore, ma in realtà aderire ad un fondo (che resta comunque una facoltà, non un obbligo) potrebbe essere una buona scelta: tutto dipende da cosa il lavoratore si aspetta e ritiene meglio per se stesso.

Facciamo un po' di chiarezza. Il TFR (Trattamento di Fine Rapporto) è una particolare forma di retribuzione differita, ossia essa matura durante il rapporto di lavoro (la sua quota è pari alla retribuzione continuativa - ossia escludendo voci erogate una tantum o per motivi contingenti - divisa per 13,5: in realtà, visto che una parte di essa viene versata a fondo perduto all'INPS il reale accantonamento in favore del lavoratore è il 6,91% della retribuzione) ma viene percepita solo al termine del rapporto stesso. Quando parlo di termine del rapporto, prescindo dalla causa che lo provoca: dimissioni, licenziamento o pensionamento sono indifferenti ai fini del pagamento del TFR. La logica alla base di questo istituto è semplice: il TFR è un risparmio forzato che il legislatore impone al lavoratore, così che se - per qualunque ragione - esso dovesse restare disoccupato, avrà comunque un capitale col quale mantenersi. Esso, inoltre, ha assunto il ruolo di fonte di finanziamento a basso costo per le Aziende, in quanto il TFR maturato restava nelle disponibilità del datore di lavoro.

Il TFR ha un meccanismo di rivalutazione prevista dalla legge: 1,5% fisso più il 75% dell'inflazione. Questo vuol dire che finché il tasso di inflazione è minore del 6%, il TFR si rivaluta più del costo della vita: negli ultimi anni, fortunatamente, tale condizione è stata ampiamente verificata, cosicché il TFR si è costantemente rivalutato anche in termini reali. A fronte della sicurezza della rivalutazione, ovviamente, il rendimento non può che essere basso. E proprio in forza a questo basso rendimento che il TFR rappresenta, per i datori di lavoro, un finanziamento a tasso bassissimo (nell'ipotesi di inflazione al 2,5% la rivalutazione è del 3,375%, quando un normale prestito bancario ha un tasso almeno doppio).

Anche dal punto di vista fiscale il TFR gode di alcune agevolazioni. Senza volere entrare nel calcolo dettagliato (la rivalutazione viene tassata ogni anno dell'11% e non concorre alla formazione dell'imponibile tassato all'atto dell'erogazione), possiamo affermare che il TFR viene tassato con l'aliquota media degli ultimi 5 anni precedenti l'erogazione, ossia con una aliquota ben minore di quella marginale (ossia quella che verrebbe applicata ad eventuali redditi aggiuntivi rispetto al proprio stipendio).

Ma se il TFR offre sicurezza e gode di un trattamento fiscale privilegiato, perché dovremo essere interessati ad aderire ad un fondo? Questa è un bella domanda, e la risposta è una sola: il TFR offre - a scadenza - un capitale sicuro ma a basso rendimento. I fondi pensione, invece, investono in attività finanziarie, che per natura sono più rischiose ma hanno un rendimento atteso (= in media lo conseguono, ma ovviamente possono anche fallire l'obiettivo) ben più alto, ma soprattutto non assicurano tanto un capitale a scadenza (in realtà anche i fondi pensione possono erogare un capitale, ma in questo caso la tassazione è ordinaria e quindi si paga l'aliquota marginale, ben più alta di quella media: in pratica riscattare la propria posizione dal fondo pensione è un suicidio economico), quanto una rendita vitalizia, ossia una seconda pensione: in un mondo dove le pensioni saranno - a parità di contributi e anni di lavoro - pù basse rispetto al passato, una integrazione pensionistica non può che fare bene.

Cosa è meglio, allora? Non c'è una risposta univoca, ognuno di noi deve capire quale dei due sistemi è più adatto alle proprie esigenze. Dal punto di vista attuariale, e considerando i rischi connessi all'investimento in attività finanziarie, esse sono equivalenti. Nei casi concreti potrebbero essere certamente ben diversi (casi limite: pensionato che muore dopo un anno dal pensionamento; col TFR il capitale sarebbe stato suo e quindi sarebbe confluito nell'asse ereditario, con la pensione integrativa la morte del pensionato estingue - salvo casi di reversibilità - il diritto; viceversa, chi sopravvive oltre i 100 anni avrebbe un enorme vantaggio nell'aver preferito una seconda pensione al capitale del TFR...).

Cosa ne penso io? Idealmente sono più favorevole alla rendita che al TFR, ma oggettivamente fino ad oggi non ho ancora aderito alla previdenza integrativa, mantenendo il caro, vecchio trattamento di fine rapporto. Dipenderà dal fatto che chi mantiene il TFR può decidere di passare alla previdenza integrativa, mentre il viceversa non è consentito?

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